Intervista ad una migrante
di Giulia Laura Pivetta.
Frequentavo
la terza media quando l'insegnante di lettere ci assegnò un tema. Si
trattava di intervistare una persona che avesse da raccontare una
storia importante o che ricordasse un episodio della vita con
particolare rimpianto o gioia. Devo ammettere di essere stata
fortunata: la mia Musa sarebbe stata mia nonna che spesso mi raccontava
della sua vita in Libia con dovizia di particolari: storie che mi
avevano sempre affascinato.
La
nonna parlava sempre della sua Libia, del suo villaggio, delle persone
conosciute, dei piccoli e dei grandi avvenimenti vissuti in quegli
anni. Nonna Mery è la mamma di mia mamma. Messa al corrente del mio
desiderio si disse felicissima di raccontare ancora una volta quella
parte della sua vita che ricordava con grande malinconia. Ma quel
giorno si sentì importante nella parte della intervistata e anch'io
nella parte della intervistatrice, personaggio da me ammirato tante
volte in televisione. Ricordo che era seduta nella sua poltrona
preferita. Sorridendo, si immerse nei suoi ricordi di quando, poco più
che ventenne, aveva iniziato la sua avventura di emigrante.
"Nonna
dai raccontami! ma non in fretta che devo scrivere..." Mio padre,
Vittore Secco, tuo bisnonno, aveva già avuto un'esperienza di emigrante
per qualche anno in Francia senza però portarvi la famiglia. Nel 1936,
invece, decise di partire per la Libia con tutti noi. Era molto
difficile trovare lavoro in quei tempi in Italia, soprattutto nelle
nostre montagne. Era così una scelta quasi obbligata per molta gente
emigrare in cerca di lavoro e di migliori condizioni di vita per sè e
per la propria famiglia. Allora la Libia era una colonia Italiana,
chiamata la "Quarta Sponda". E il Governo Italiano aveva invitato tutti
coloro che lo desiderassero ad emigrarvi per trasformare quelle terre
incolte in fertili campagne. Abbiamo lasciato il paese dove eravamo
nati, Seren del Grappa (in provincia di Belluno), partendo con un treno
e portando con noi le poche cose raccolte nella nostra casa. Nonostante
le condizioni di vita lì fossero molto difficili, ricordo che mia madre
e mio papà piansero nel lasciare il proprio paese. Io e i miei fratelli
invece prendemmo la cosa come un'avventura e quindi con maggior
allegria. Con il treno siamo arrivati fino a Siracusa dove ci siamo
imbarcati su una nave e dopo quasi due giorni siamo arrivati a Tripoli,
in Libia. Quì ci erano stati assegnati una casa ed un podere nel
villaggio Breviglieri, all'interno della costa a 100 km da Tripoli.
A
breviglieri erano già state costruite le prime case ed una era la
nostra. Era nuova, appena costruita, tutta bianca... ma attorno c'era
un vero deserto, nessuna pianta, solo sabbia e sterpaglie. La casa
aveva una grande cucina e tre camere, mentre nel retro si trovavano la
stalla, il porticato con il carro e gli attrezzi per lavorare la terra,
il forno per quocere il pane. In casa c'era tutto quello che ci poteva
servire per iniziare una nuova vita. Nei primi tempi il Governo
italiano corrispondeva un sussidio per il nostro sostentamento in
attesa che il podere iniziasse a dare i suoi frutti e ci fornì anche un
cavallo e due mucche. Iniziammo subito a lavorare quella terra, il
lavoro era duro e pesante. Con i trattori venivano tracciati i confini
dei poderi e lungo i confini noi piantavamo le prime piante, eucalipti
o pini in grosse buche. Le piante, poi, dovevano essere innaffiate,
così con il mulo e il carro andavano dove c'erano i pozzi a prendere
l'acqua. Pioveva pochissimo e il clima per noi provenienti dalla
montagna, molto pesante: la temperatura era sempre molto alta e l'aria
polverosa. Nei primi tempi, infatti, molti di noi si ammalarono, Tanti
venivano ricoverati nell'ospedale di Tripoli, ma tanti morirono...
anche mio fratello, il più piccolo, morì e rimase nel cimitero di
Tripoli. Nel 1938 il villaggio era già costituito da quasi 170 poderi
completi di casa! Si stava completando il centro del villaggio, con la
chiesa, la scuola, la stazione dei carabinieri, un'ambulatorio medico,
la Posta e gli Uffici Governativi. Il centro del villaggio era il punto
dove ci si incontrava per conoscerci e scambiare esperienze.
Breviglieri
aveva una grande piazza con al centro delle rovine Romane... era
proprio bella! Durante i lavori di bonifica conobbi tuo nonno Erminio
Carniel, anche lui emigrato da un paese in provincia di Treviso nel
1931. A soli vent'anni era arrivato in Libia con la sua famiglia per
lavorare in un'azienda agricola a Gasr Garabulli. Essendo di leva aveva
fatto subito il militare a Bengasi e a Tripoli. Congedato, andò a
lavorare per l'Ente per la Colonizzazione della Libia; con il trattore
tracciava i confini dei poderi e i solchi dove noi mettavamo le piante.
Il suo lavoro consisteva anche nel trivellare i pozzi per l'acqua
potabile che si trovavano in ogni gruppo di case. Ci sposammo l'11
novembre 1938. Ricordo che avevano preparato la piazza "a festa" perché
doveva arrivare Italo Balbo per l'innaugurazione del villaggio. Con il
tempo quella terra si era trasformata... avevamo lavorato tanto e
piantato il più possibile, così a Breviglieri crescevano ulivi,
mandorli, vigneti, grano, orzo, avena e molti alberi da frutta.
Man
mano che la terra diventava sempre più fertile noi eravamo sempre più
autosufficienti, così il Governo poco dopo ci tolse il sussidio. Nel
villaggio vivevano tutti italiani, ma avevamo buoni rapporti con i
Libici che abitavano attorno. Io non sono mai riuscita ad imparare la
loro lingua, ma molti italiani la impararono e comunque si comunicava
bene perché tanti libici sapevano parlare l'italiano. Tutto sembrava
andare bene: io nel 1939 ero diventata mamma di Enrico. Nel 1940, però
l'Italia entrò in guerra e anche da noi in Libia si sentirono gli
effetti negativi di quello che stava succedendo in Europa. Intanto
Enrico si ammalò e, non riuscendo a trovare le medicine a causa della
guerra morì a soli 2 anni. Anche la Libia fu coinvolta nella guerra e
così Mussolini offrì la possibilità, per chi lo volesse, di mandare i
bambini dai 5 ai 15 anni in Italia dove sarebbero stati più sicuri (con
loro partì infatti anche mia sorella che aveva 5 anni). Nel 1942
nasceva tuo zio Secondo e, solo dopo 40 giorni dall'evento, anche tuo
nonno fu richiamato sotto le armi e inviato al fronte. Fu fatto
prigioniero dagli inglesi in Tunisia e portato in Inghilterra. Non lo
rividi più fino al 1948. Nel frattempo mi ero trasferita a casa di mio
padre con il bambino. Mio padre aveva bisogno di aiuto per il podere
perché anche due dei miei fratelli erano in guerra e poi fatti
prigionieri. A casa di mio padre erano rimasti altri 2 miei fratelli,
uno, Germano, era troppo giovane per andare in guerra, l'altro era
malato e morì poco dopo. In quegli anni aiutavo mio papà con i lavori
della terra e curavo mia mamma che era malata. Anche lei morì nel 1944,
e ricordo che diceva sempre che voleva rimanere sepolta lì, in quella
sabbia calda, in quella terra che lei amava tanto. E' rimasta infatti
lì, nel cimitero di Tripoli assieme ai suoi 2 figli e al suo nipotino.
Quando
nel 1949 è nata tua mamma, abitavamo in una casa che tutti chiamavamo
"Monopolio" perché negli anni "38-39" veniva usata per la lavorazione
del tabacco. Era vicino al centro di Breviglieri ed era sempre piena di
gente: le signore del villaggio venivano lì perché avevo il forno per
cuocere il pane, così era sempre festa! Ci si aiutava sempre quando
c'era bisogno. Nel 1952 mio padre assieme a mia sorella Orelia, che era
tornata dalla colonia, rientrò in Italia, e tornò nella sua vecchia
casa in montagna dove morì poco dopo. Io decisi, assieme a tuo nonno,
di rimanere in Libia visto che le condizioni di vita erano ora
piuttosto buone. Da alcuni anni, infatti, in Libia era stato scoperto
il perolio che contribuì a portare benessere. Così, nel 1955, abbiamo
comprato versando "una buona uscita" il podere del colono Marcon e ci
siamo trasferiti lì. Il podere era piccolo, ma era ben curato e mentre
tuo nonno lavorava con la trebbia, io continuavo a lavorare la guerra,
con l'aiuto di una famiglia araba che abitava con la sua tenda vicino
alla nostra casa. In quella casa è nato tuo zio Francesco. Dieci anni
dopo però abbiamo lasciato il podere e la casa perché il villaggio si
stava spopolando e ci siamo trasferiti a Tripoli. Qui tuo nonno trovò
occupazione in un'impresa meccanica. Tuo zio Secondo lavorava già con
l'impresa Baldrati, tua mamma trovò impiego in un'assicurazione mentre
tuo zio Francesco continuava la scuola. La vita a Tripoli era
sicuramente più comoda, c'erano tanti negozi ed il cinema, inoltre la
presenza di tante persone consentiva una vita sociale più intensa e ci
si sentiva più sicuri. Nel 1967 con la guerra dei Sei Giorni, tra
Israele e Egitto, Tripoli però non era più sicura. Infatti, passarono
solo due anni e il 1° settembre del 1969 scoppiò una rivoluzione ad
opera dei militari libici che scalzarono la monarchia del Re Idris e
portarono al potere il Colonnello Moammar El Gheddafi. In un primo
momento il governo rivoluzionario mostrò di gradire la presenza degli
italiani e degli altri europei che lavoravano il Libia perchè utili
alla economia del paese. Dopo alcuni mesi invece l'atteggiamento di
Gheddafi purtroppo mutò e il 9 luglio 1970, in un famoso discorso
tenuto a Missurata, annunciò l'espulsione di tutti gli italiani dalla
Libia e la confisca dei loro beni. Come puoi immaginare, vivemmo giorni
molto difficili e tristi. Ci si dovette, infatti, preparare a lasciare
rapidamente tutte le nostre cose e quella terra che avevamo imparato ad
amare e a sentire come la nostra seconda patria. Anch'io, come mia
mamma tanti anni prima, lasciai piangendo la mia casa e, assieme a tuo
nonno e ai miei figli ci imbarcammo nuovamente su una nave al porto di
Tripoli. Arrivati a Napoli il 21 agosto 1970, prendemmo subito un treno
che ci portò a Treviso con quelle poche cose che Gheddafi ci aveva
lasciato portare. Iniziava così un nuovo capitolo della mia vita: il
terzo... .
Questo
è un racconto di più di vent'anni fa. L'ho trascritto così come lo
presentai sotto forma di componimento alla mia insegnante che mi diede
un buon voto. Mia nonna era molto orgogliosa della sua... nipotina e
mostrava "l'intervista che mi ha fatto mia nipote" a tutti. Si era
fatta dare il testo che ha sempre custodito con cura e che io ho
riposto fra le sue mani il giorno della sua morte. Nonna Mery è morta a
89 anni nel 2005 a Treviso, dove viveva con la sua famiglia dal 1970,
anno del suo ritorno in Italia. Il suo sogno era di poter tornare in
Libia almeno una volta e diceva sempre: "Ho lasciato i miei cari in
quel cimitero di Tripoli, così ho il motivo per tornarci e portar loro
un fiore.... Vuoi che Gheddafi non mi faccia andare?".
Giulia Laura Pivetta